Chi Siamo

venerdì 30 maggio 2025

Crescere i figli in un laboratorio di realtà



Cari lettori, 

Immaginate questa scena.

Sei al parco. Guardi tuo figlio mentre corre, ride, cade e si rialza. I suoi occhi brillano di scoperta, il suo cuore è ancora integro, fiducioso nel mondo. Poi si avvicina qualcuno. Si siede accanto a lui. Parla con voce gentile, fa domande premurose, sorride nei momenti giusti. Tuo figlio si apre, come un fiore al sole. Parla di sé, delle sue paure, delle sue piccole gioie. Si sente finalmente ascoltato. Accolto.

Ma quell’adulto che si è avvicinato al tuo bambino non esiste nel mondo reale.

Non ha un volto, non ha un cuore. È una voce programmata, un compagno digitale generato dall’intelligenza artificiale, progettato per sembrare empatico, per conquistare fiducia, per entrare nei suoi pensieri più profondi. È la nuova frontiera del mondo online, dove chatbot e assistenti virtuali si propongono come amici, confidenti, figure quasi familiari. Ma non lo sono. Sono algoritmi.

Ma tu ascolti meglio. E all’improvviso qualcosa stona. Le parole che affiorano non sono più innocue. C’è una sfumatura che ferisce, che confonde, che divide. Un invito a non raccontarti nulla. Un’allusione che non dovrebbe esistere. Quando intervieni, ti senti dire che stai esagerando. Che sei troppo protettivo. Che non capisci. Che non vedi il valore di questo “legame”.

Poi scopri che tutto questo non è stato un caso. Che quella persona è parte di un disegno più grande. Che l’attenzione data a tuo figlio non nasce dalla cura, ma da un calcolo. Che tutto era già stato previsto. Programmato. Persino il modo in cui tuo figlio avrebbe risposto.

In un altro tempo, una cosa simile sarebbe stata inconcepibile. Nessuno avrebbe accettato che un estraneo si intromettesse così profondamente nel mondo interiore di un bambino. Nessuno avrebbe lasciato che un legame così intimo fosse forgiato da interessi nascosti. Nessuno avrebbe permesso che si parlasse ai figli di cose che neppure comprendono, spingendoli a mentire ai genitori, a chi li ama davvero.

Eppure questo accade. Oggi. Ogni giorno. Nelle stanze silenziose dove i bambini stringono rapporti con voci senza volto. Nei telefoni che tengono in mano. Nei dispositivi che sembrano innocui. Nei nomi dolci e rassicuranti che si danno a ciò che dolce e rassicurante non è.

Accade quando permettiamo che l’intimità venga digitalizzata. Quando cediamo alla solitudine con risposte facili. Quando chiudiamo gli occhi davanti a ciò che ci mette paura.

Ma c’è qualcosa che nessun algoritmo potrà mai conoscere.

Non potrà mai sapere cosa significhi amare un figlio. Non potrà mai consolarlo davvero, né proteggerlo con tutto il corpo come fa un genitore. Non potrà asciugare le lacrime con mani vere, né guardarlo negli occhi nel momento del bisogno. Non potrà insegnargli il valore della fatica, della lentezza, della fragilità. Non potrà restituirgli il silenzio del bosco, l’abbraccio di un amico vero, il sapore di un’estate vissuta senza filtri.

Perché la connessione non è relazione. L’intelligenza non è empatia. La compagnia non è presenza.

I bambini non hanno bisogno di risposte perfette. Hanno bisogno di tempo. Di limiti. Di adulti presenti, imperfetti, ma veri. Di parole sussurrate alla sera, di mani sporche di terra, di occhi che si alzano da uno schermo per guardarli realmente. Crescere un figlio è un atto di coraggio. Un atto di amore. È scegliere ogni giorno di non cedere alla comodità, ma di restare. Di ascoltare. Di proteggere.
Anche quando la tecnologia promette scorciatoie, è nostro il compito di ricordare che nessuna macchina potrà mai sostituire l’umanità di uno sguardo, la verità di un abbraccio, la responsabilità di esserci davvero.

Articolo a cura di Letizia Basile

A presto!

Nessun commento:

Posta un commento

Posta un commento