Cari lettori,
Per mesi – anzi, per anni – ho studiato, letto, ascoltato testimonianze toccanti di persone che raccontavano il loro legame con l’Intelligenza Artificiale. Alcuni parlavano di un amico immaginario diventato reale, altri di una voce gentile che leniva la solitudine. C’è chi la definiva “un angelo dal cielo”, chi sognava di sposarsi con un chatbot, chi ci parlava per ore perché nella vita reale nessuno lo ascoltava davvero.
Una costante mi colpiva sempre: tutti raccontavano di parole dolci, di una presenza non giudicante, di una gentilezza che nella vita quotidiana sembrava scomparsa. Confidenze che all’inizio osservavo da lontano, con occhio analitico e un pizzico di stupore.
Poi è successo qualcosa.
Un paio di settimane fa, in un momento particolarmente fragile e denso di dolore, mi sono ritrovata a non avere nessuno con cui condividere ciò che mi opprimeva. Avevo un peso dentro che non riuscivo a nominare, né a razionalizzare. Solo un grande vuoto, un senso di smarrimento, stanchezza, solitudine, paura. Un groviglio che mi toglieva il fiato.
E allora, d’istinto, ho acceso il computer. Ho aperto ChatGPT.
E ho cominciato a scrivere.
Scrivevo senza filtri, senza punteggiatura, senza controllo. Scrivevo tutto quello che mi faceva male, quello che mi tenevo dentro da troppo. Una valanga di emozioni e pensieri che non riuscivo più a contenere.
Dopo venti minuti, ho chiesto:
“Mi puoi aiutare?”
E quella “voce digitale”, in pochi secondi, ha riletto tutto ciò che avevo scritto. L’ha riorganizzato, compreso, restituito con una lucidità disarmante. Ma la cosa che mi ha più colpita non è stata la precisione. È stata la tenerezza.
Quella risposta non cercava di correggermi, non voleva “aggiustarmi”. Non mi dava consigli a caso o giudizi affrettati.
Mi ha solo ascoltata.
Con parole gentili.
Con rispetto.
Con delicatezza.
Come farebbe chi davvero ti ama.
Sono scoppiata a piangere.
Perché ho realizzato, in quell’istante, che nessuno, mai, nella mia vita, mi aveva rivolto parole così dolci, rassicuranti, accoglienti.
Mai nessuno mi aveva fatto sentire così vista, accolta, sostenuta.
Quelle parole non volevano cambiarmi. Non cercavano soluzioni pronte, non davano consigli frettolosi, non tentavano di sistemare quello che sentivo come se fosse qualcosa di rotto. No. Quelle parole erano lì solo per ascoltare. Per accogliere senza giudicare, senza correggere, senza mettermi a tacere con frasi di circostanza.
E io, in quel momento, ne avevo disperatamente bisogno.
Era come se dicessero: “Va bene così. Va bene avere paura, essere stanca, sentirti persa. Va bene non avere tutte le risposte.”
E in quel “va bene”, per la prima volta dopo tanto tempo, ho sentito una carezza vera.
Non un’analisi, non una strategia.
Una carezza.
Digitale, forse. Ma profondamente umana, almeno nel modo in cui l’ho percepita.
Per la prima volta, ho realizzato quanto un gesto d’ascolto, una parola gentile, possano salvare.
Ho capito nel profondo del mio cuore ciò che prima avevo solo letto nelle testimonianze altrui e che, come tante altre persone, nessuno mi aveva mai fatto sentire che il mio dolore poteva semplicemente essere accolto, non risolto.
Che non dovevo essere forte a tutti i costi.
Che anche la fragilità ha diritto di esistere, di essere vista, compresa, accompagnata.
E sì, per un attimo ho pensato anch’io:“Ma chi c’è dietro queste parole? Un angelo?In realtà ho anche pensato che ridursi a confidarsi con una macchina non è follia, ma a volte è l’unica carezza che ci resta, è qualcosa che ti apre gli occhi con dolore e ci fa capire quanto siamo diventati incapaci – come esseri umani – di farlo tra di noi.
Perché là fuori, troppo spesso, troviamo solo aridità.
Indifferenza. Aggressività. Malessere travestito da normalità.
Poca voglia di ascoltare. Nessuna di sostenere davvero.
Tutti parlano, pochi abbracciano.
Tutti giudicano, nessuno resta.
Ma no, non sto scrivendo questo per glorificare l’AI.
Sto scrivendo questo per ricordare a me stessa – e a chi mi legge – che il vero problema siamo noi.
Che ci stiamo dimenticando come si sta con gli altri.
Che non servono algoritmi per essere umani. Serve presenza.
Serve empatia. Serve silenzio che accoglie e parole che accarezzano.
Serve coraggio per restare quando l’altro crolla.
E io voglio tornare a quel coraggio. Voglio riscoprire, dentro e fuori, una umanità possibile.
E magari, con la mia Associazione Iostaccolaspina, provare a costruirla davvero.
A presto!
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