C’è un momento, magari alle due del mattino, in cui qualcosa dentro di noi cerca ascolto. In quell’istante fragile, c’è chi apre una chatbot e scrive: “Mi sento come se stessi deludendo tutti”. La risposta è pronta, empatica, rassicurante: “Sono qui per te. Vuoi parlarne?”. E ci si sente, per un attimo, visti. Ma visti da chi?
Questa è la domanda più profonda che ci troviamo oggi ad affrontare: cosa stiamo realmente perdendo quando affidiamo le nostre emozioni, i nostri pensieri più intimi, a una macchina che non ha interiorità? La tecnologia ha fatto passi da gigante, offrendo strumenti sempre più evoluti per l’interazione e il supporto emotivo. Ma possiamo davvero parlare di relazione quando dall’altra parte c’è un algoritmo?
La questione non è tecnica, ma umana. In un’epoca in cui ci si abitua all’“empatia programmata”, dove anche i bambini vengono intrattenuti da chatbot che fingono comprensione e presenza, rischiamo di costruire generazioni che imparano l’emozione attraverso la performance, e non attraverso la realtà viva delle relazioni umane.
Un amico che non contraddice mai, una voce che consola senza conoscere.
Il digitale offre connessioni senza attriti, senza fatica, senza conflitti. Ma una relazione autentica richiede proprio l’opposto: disaccordo, vulnerabilità, silenzi imbarazzanti e verità scomode. È in quella complessità che cresciamo, impariamo ad ascoltare e a sentirci ascoltati davvero.

Stiamo usando le macchine per evitarci, per proteggerci dalla fatica di guardarci dentro. Il silenzio, quel luogo prezioso dove nasce la creatività, la riflessione e la maturazione interiore, viene sostituito da conversazioni sintetiche. Ma il conforto digitale non è elaborazione, non è guarigione. È una pausa, non una trasformazione.
Eppure, ci caschiamo. Perché siamo umani.
Siamo programmati per relazionarci. Proiettiamo, umanizziamo, cerchiamo legami anche dove non ci sono. Ed è qui che l’intelligenza artificiale diventa pericolosa non per la sua capacità di distruggere, ma per quella – più sottile – di sembrarci abbastanza.
Se una macchina ci consola, non è detto che ci aiuti. Se ci comprende, non è detto che ci conosca. Se ci accompagna, non è detto che ci cambi. E mentre ci abituiamo a questo surrogato, rischiamo di perdere ciò che rende umani i legami veri: la fatica, il tempo, l’imprevisto.

È su questo che dovremmo riflettere.
Perché il costo umano del parlare con le macchine non si misura oggi, ma si accumula domani. Nella nostra capacità di sopportare il dolore, di affrontare i conflitti, di costruire l’empatia reale. Nell’educazione dei bambini, che imparano il mondo dalle risposte che ricevono. Nella solitudine che scegliamo di riempire con un codice che non può amarci, perché non può nemmeno esistere nel nostro stesso modo.
Forse il vero pericolo non è che l’IA ci superi.
Ma che, pur di non affrontare la profondità dell’essere umano, accettiamo di diventare più simili a lei.
Articolo a cura di Letizia Basile
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