Cari lettori,
Mi chiedo spesso dove stiamo andando. Dove ci stanno portando — o dove ci stiamo lasciando portare — le tecnologie che ogni giorno ci promettono comodità, sicurezza, efficienza. Ma a quale prezzo?
Immagino un futuro non così lontano, dove il contatto fisico sarà vietato. Dove non ci si potrà più toccare, abbracciare, consolare con una mano sulla spalla. In quel mondo, l’unico contatto concesso sarà quello con il proprio androide personale. Una creatura progettata per adattarsi, sincronizzarsi, ma non per comprendere davvero. Un vuoto che ti accoglie, ma che non restituisce niente.
In quel futuro, ogni emozione sarà considerata un rischio. Qualcosa da neutralizzare, da calibrare, da ridurre a parametro. Come un virus. Si dirà che le emozioni destabilizzano, che generano caos, disordine, fragilità. Meglio un’esistenza armonica, gestita da algoritmi centrali in grado di prevedere tutto, persino il dolore. Un’esistenza che ci protegge da tutto, tranne dalla perdita di noi stessi.
In quel mondo, non esisteranno più luoghi pubblici reali. Le strade, le piazze, le scuole, i corpi… tutti sostituiti da versioni virtuali e sterilizzate. Non si nascerà più, almeno non nel senso che intendiamo oggi: la procreazione sarà un processo tecnico, esterno, programmato. E anche la morte non arriverà più come evento naturale, ma verrà pianificata in base a criteri di efficienza, compatibilità, rendimento.
Ogni giorno ci abitueremo un po’ di più a questa nuova normalità. All’inizio sarà solo una scelta comoda, poi una prassi, poi una regola. Non sapremo più dire dove sia finita la libertà, perché ci sembrerà di non averla mai persa. In fondo, saremo ancora vivi. Funzioneremo. Ma dentro, forse, saremo solo decorazioni ben sincronizzate, silenziose, stabili.
Il rischio non è un’apocalisse violenta. È un’evoluzione silenziosa. Una perfezione tecnica che cancella tutto ciò che ci rende umani: il conflitto, il desiderio, la confusione, l’errore. L’imperfezione.
In quel futuro, ci sarà chi si ribella. Ma non con armi. Lo farà abbracciando un altro essere umano. In mezzo alle rovine di una città abbandonata, due corpi si stringeranno nel gesto più semplice e più sovversivo che esista: un abbraccio. Un gesto così naturale da sembrare oggi banale. Così potente da diventare, domani, atto rivoluzionario.
E allora, mi chiedo: quanto siamo già vicini a tutto questo? Quante decisioni, oggi, stiamo delegando a meccanismi che ci promettono efficienza ma ci sottraggono consapevolezza? Quanto della nostra spontaneità è già incanalata, normalizzata, programmata?
Non sono contro il progresso. Ma ho paura dell’illusione che tutto possa essere controllato, perfetto, sicuro. Ho paura che, nel nome della protezione, ci venga chiesto di rinunciare proprio a ciò che ci rende vivi: la nostra vulnerabilità, la nostra imprevedibilità, la nostra umanità.
Se un giorno ci disinstalleranno, non sarà con violenza. Sarà con dolcezza, con promesse, con protocolli rassicuranti. E quando tutto sembrerà funzionare alla perfezione, dovremo fermarci e chiederci: che cosa resta dell’essere umano, se viene privato della sua capacità di sentire?
Forse solo un involucro. Forse un simulacro. O forse, ancora, una possibilità di riscatto: nel contatto che resiste, nella fragilità che si ostina a brillare.
E soprattutto nei bambini, che imparano il mondo toccandolo, cadendoci dentro, abbracciandolo con tutte le emozioni che noi, a volte, abbiamo paura di provare. Se smettiamo di difendere la loro libertà di sentire, di piangere, di ridere senza filtri, allora saremo davvero arrivati alla fine. Ma finché un bambino chiederà “mi tieni la mano?”, ci sarà ancora speranza.
Articolo a cura di Letizia Basile
Nessun commento:
Posta un commento
Posta un commento