Cari lettori,
Siamo genitori sull’orlo di una crisi di nervi. Guardiamo i
nostri figli e non li riconosciamo più. Ci sembrano chiusi, apatici, asociali.
I loro occhi si illuminano solo quando guardano lo schermo dello smartphone e
del PC. Ma che ci troveranno lì dentro? Che si scriveranno tutto il tempo? I
maschi con i videogiochi tornano addirittura in vita: si entusiasmano. E questo
ci preoccupa: e se per colpa delle scariche di dopamina delle battaglie che
fanno su Fortnite diventassero dipendenti come dei drogati? Se diventassero
violenti? Deve essere per colpa dei social e dei videogame se vanno male a
scuola e molti hanno smesso di andarci.
Che guaio. Dove abbiamo sbagliato? Pensavamo di aver dato
loro tutto. Tutto quello che non avevamo avuto noi quando eravamo piccoli.
Forse è stato troppo. Ci conforta (ed è paradossale) non essere i soli a vivere
questo dramma: basta parlarne in una chat scolastica e viene fuori che anche i
figli degli altri sono problematici per le medesime ragioni. Colpa di Internet.
In questo attacco di panico collettivo la reazione è univoca: gli leviamo lo
smartphone, il computer e i videogiochi nell’illusione che basti questo a fare
vivere i ragazzi come vivevamo noi quando avevamo la loro età. Quelli sì che erano
bei tempi, quando si andava all’oratorio, non come adesso che abbiamo perso il
controllo dei nostri figli. Alcuni genitori sono ossessionati dal fatto di
entrare in possesso della password del loro smartphone per capire finalmente
chi sono. Quelli che lo hanno fatto raccontano di essere rimasti scioccati da
quel che hanno letto o ascoltato nei vocali che i ragazzi si mandano. Ma non
hanno risolto il problema, di solito non lo hanno nemmeno capito.
Ci stiamo perdendo una generazione? Già nel 2008 lo scrittore
Nicholas Carr scrisse un saggio che fece scalpore provando a rispondere alla
domanda “Google ci rende stupidi?”. Sulla risposta si aprì un grande dibattito,
molti dissentirono, ma su una cosa ci fu un sostanziale accordo: Internet non
era certamente solo una rete di computer e nemmeno una rete di persone che
comunicano e basta; ma uno strumento che stava modificando il nostro sistema
cognitivo, ovvero il nostro modo di apprendere e di pensare. Stare in Rete ci
modifica il cervello. Deve essere per questo che i nativi digitali oggi ci
appaiono sostanzialmente degli alieni. Sono davvero diversi da noi e non li
stiamo capendo.
Va detto che quando Carr scrisse quel saggio, Instagram e
TikTok nemmeno esistevano, il telefonino più venduto era un Motorola e le app
di messaggistica muovevano i primissimi passi (WhatsApp sarebbe stata lanciata
l’anno seguente). Insomma se c’era un problema, è peggiorato. E se è
peggiorato, noi genitori abbiamo dato un contributo formidabile. Chi ha messo
in mano ai nostri bambini smartphone, tablet, PC e console? Noi. Nelle scorse
settimane l’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo dell’università
Cattolica ha condotto una grande ricerca su un campione di bambini e
adolescenti (8-16 anni): “La cosa terrificante è questo ingresso precoce del digitale nelle loro
vite”. Un terzo dei bambini riceve uno smartphone fra gli 8 e 9 anni, la metà
nei due anni successivi. “È il classico regalo della prima comunione”, dicono i ricercatori che suggeriscono di fare corsi di alfabetizzazione digitale, ma ai
genitori non ai figli. I controlli parentali per limitare la navigazione
(questi) vengono usati poco e male. Il risultato è che un terzo dei bambini
dice di stare su Instagram, Tik Tok e Facebook sebbene sia vietato; due terzi
guardano YouTube (dove fanno “esperienze spiacevoli”, ammettono); e WhatsApp è
diffusissimo. Non parliamo di adolescenti, parliamo di bambini. E se fosse
questo l’errore? Se fosse questo il motivo per cui poi si perdono? Li esponiamo
al digitale troppo presto?
Il sindaco di New York sul punto non ha dubbi. Si chiama
Eric Adams, è un democratico, innamorato dell’innovazione; ma nei giorni scorsi
ha fatto causa a Instagram, Tik Tok, Snapchat e YouTube per i danni che stanno
facendo agli adolescenti. La citazione in giudizio (oltre 300 pagine) è il più
potente e argomentato atto d’accusa mai fatto contro la Silicon Valley. È stato
ribattezzato I bambini contro Big Tech e dice in sostanza: queste aziende nel nome
del profitto hanno messo assieme i migliori progettisti e neuroscienziati per
realizzare piattaforme che ci tengono incollati allo schermo sfruttando il modo
in cui funziona la nostra mente; come può un ragazzino resistere a tutto
questo? Impossibile. Nel ricorso si citano dati drammatici sullo stato di
salute dei giovani americani: un aumento del 57% dei suicidi; del 117% delle
patologie legate all’ansia; del 40% di tristezza e sconforto. Se questa
interpretazione è vera, allora dobbiamo spegnere tutto. Subito.
Eppure chi sta tutti i giorni, da anni, ad ascoltare i
giovani racconta una storia totalmente diversa. Lo psicologo Matteo Lancini è
il presidente della Fondazione Minotauro di Milano, “forse il centro che
ascolta più adolescenti e giovani adulti in Italia”. Dice: “Non esiste una
correlazione certa fra disagio giovanile e i social media. La città di New York
ha fatto benissimo a fare quel ricorso perché se i nostri figli stanno male per
colpa dei social allora non è colpa nostra che li ignoriamo, non è colpa della
scuola che non li ascolta, o perché con il cambiamento climatico non hanno un
futuro. Quel ricorso è un modo degli adulti per assolversi”. Secondo Lancini “i
giovani non stanno male per colpa dei social e dei videogame ma stanno sui
social e sui videogame perché stanno male”. Riempiono un vuoto. La causa ultima
del malessere sarebbe da ricercare nella fragilità degli adulti che crea
adolescenti ansiosi: “I bambini crescono iper controllati a distanza da
genitori e immobilizzati a scuola, con un tempo libero occupato da attività
programmate dagli adulti, il che aumenta continuamente il livello di
aspettative”.
Su questa impostazione concorda lo psichiatra Federico
Tonioni che dal 2009 dirige il primo ambulatorio sulla dipendenza di Internet,
al policlinico Gemelli. Dopo quindici anni in prima linea si sente di poter
dire: “Sono una generazione iperstimolata, ma abbiamo sottovalutato il
sovraccarico emotivo di questa continua richiesta di performance. Meno male che
i ragazzi hanno Internet che per loro è uno spazio di socialità essenziale e
protetto, nel senso di mediato da uno schermo. La scuola è di una noia mortale
e i docenti diagnosticano come disturbo dell’attenzione il fatto che molti
ragazzi preferiscono apprendere in modo diverso. Quanto ai genitori, chiedere
la password dello smartphone dei figli adolescenti è sbagliato, come è
sbagliato spiarli e controllarli. Negli smartphone le persone mettono le
proprie fantasie e i propri sogni. Se qualcuno avesse letto nella nostra mente
quando avevamo 14 anni, che idea di noi si sarebbe fatto?”.
Insomma, i famosi “no che aiutano a crescere” andrebbero detti prima. Quando i figli diventano adolescenti i divieti tecnologici fanno soltanto danni. Che fare allora davanti a un figlio in crisi? “I ragazzi in difficoltà manifestano un bisogno di essere amati e capiti proprio quando sbagliano e falliscono". Bisogna interessarsi davvero a loro, sostituire il solito repertorio di domande indagatorie sui successi e i fallimenti scolastici e sull’adempimento dei doveri con un vero interesse per la loro vita. Dire per esempio: Come stai? Sei felice? Ti voglio bene. E poi la frase più difficile e importante di tutte: Mi fido di te.
È una sfida durissima, la
costruzione di un nuovo patto con i figli richiede ai genitori un sacco di
tempo per rimediare agli errori fatti fin qui. Ma l’importante è non farne
altri.
A presto!
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